Vola la spesa per la sanità privata: 7 milioni di italiani indebitati per pagarsi le cure

Posted Leave a comment

Secondo lo studio del Censis, realizzato in collaborazione con un’assicurazione sanitaria, la spesa complessiva pagata di tasca propria salirà quest’anno al record di 40 miliardi: per gli operai, tutta la tredicesima se ne va in spese per la salute della famiglia.

 

Gli italiani non hanno mai speso così tanto in cure e medicine. Si calcola che il valore complessivo della spesa sanitaria privata degli italiani arriverà a fine anno a 40 miliardi di euro contro i 37,3 dello scorso anno. Nel periodo 2013-2017 è aumentata del 9,6% in termini reali, molto più dei consumi complessivi (+5,3%). Il rapporto Censis-Rbm Assicurazione Salute presentato oggi al “Welfare Day 2018” stima che nell’ultimo anno 44 milioni di italiani hanno speso soldi di tasca propria per pagare prestazioni sanitarie.

E la spesa sanitaria privata incide soprattutto sul budget delle famiglie più deboli: tra il  2014 e il 2016 i consumi delle famiglie operaie sono rimasti quasi fermi (+0,1%), ma le loro spese sanitarie sono aumentate del 6,4%: nell’ultimo anno, l’aumento è stato di 86 euro in più a famiglia. Per gli imprenditori c’è stato invece un forte incremento dei consumi (+6%) e una crescita inferiore della spesa sanitaria privata (+4,5%: in media 80 euro in più nell’ultimo anno).

Per gli operai l’intera tredicesima se ne va per pagare cure sanitarie familiari: quasi 1.100 euro all’anno. Per 7 famiglie a basso reddito su 10 la spesa privata per la salute incide pesantemente sulle risorse familiari. E c’è chi si indebita per pagare la sanità. Nell’ultimo anno, per pagare le spese per la salute 7 milioni di italiani si sono indebitati e 2,8 milioni hanno dovuto usare il ricavato della vendita di una casa o svincolare risparmi.

Secondo il rapporto, 12 milioni di italiani hanno saltato le lunghe liste d’attesa nel pubblico grazie a conoscenze e raccomandazioni. E proprio a casua delle lunghe attese, oltre che per i casi di malasanità, monta il rancore verso il Servizio sanitario. A provare sentimenti di rabbia è il 38% degli italiani, quasi 4 su 10. Sono soprattutto pazienti con redditi bassi (43,3%) e residenti al Sud (45,5%). Il 54,7% degli italiani – stimando il campione – è convinto che le opportunità di diagnosi e cura non siano uguali per tutti.

Ma per un miglioramento della sanità il 63% degli italiani non si attende nulla dalla politica: per il 47% i politici hanno fatto troppe promesse e lanciato poche idee valide, per il 24,5% non hanno più le competenze e le capacità di un tempo. La sanità – emerge sempre dall’analisi del Censis – ha giocato molto nel risultato elettorale (per l’81% dei cittadini è una questione decisiva nella scelta del partito per cui votare), e sarà il cantiere in cui gli italiani metteranno alla prova “il governo del cambiamento”. I più rancorosi verso il Servizio sanitario sono proprio gli elettori del Movimento 5 Stelle (41,1%) e della Lega (39,2%), meno quelli di Forza Italia (32,9%) e Pd (30%). Ma gli elettori di 5 Stelle e Lega sono anche i più fiduciosi nella politica del cambiamento.

Fonte “La Repubblica.it”

Dopo la fine dell’età adulta, stiamo assistendo anche alla fine della vecchiaia?

Posted Leave a comment

«Le mie frequentazioni letterarie ed editoriali si sono sempre svolte nella città dove abito e credo che qui scriverò anche i prossimi libri». Gillo Dorfles scriveva così sulla Lettura, il 12 novembre scorso, riferendosi a Milano. Aveva 107 anni e 214 giorni e stava pensando ai suoi prossimi libri. Il caso del grande Dorfles, scomparso due settimane fa a un passo dai 108 anni, rimane un’eccezione. Ma l’età avanzata è sempre meno un ostacolo e sempre più un valore aggiunto, che si esprime nella saggezza ma soprattutto nella libertà, nella creatività e qualche volta perfino in un certo ribellismo e in un’improvvisa insofferenza per il “dover essere”. Potremmo chiamarla “mozione Scalfari”, inteso come Eugenio. Il fondatore di Repubblica, parlando con Bianca Berlinguer, ha detto: «Se uno attraversa il decennio novanta-cento, io sono a novantaquattro, allora quello è uno che… scusate… è uno che se ne fotte». Peraltro, non serve arrivare a novantaquattro anni. Ne bastano settanta. Ma quello è il punto, quella è la variabile che rende paradossalmente più effervescente un mondo in cui la vita si allunga e si altera il bilanciamento vecchi-giovani, con rilevanti conseguenze ancora poco indagate.

Joseph F. Coughlin, fondatore dell’AgeLab del Mit, nel saggio The Longevity Economy, spiega come le aziende fatichino a interpretare un mercato, quello degli adulti che hanno superato la “mezza età”, che nei soli Stati Uniti ha già un valore potenziale di circa ottomila miliardi di dollari. Applicando schemi obsoleti, si considerano gli anziani come partecipanti passivi della società e li si pensa esclusivamente come consumatori e non come produttori – di lavoro, idee, prodotti culturali – o addirittura come influencer.

Per le tre diverse copertine della sua Timeless Issue dell’ottobre scorso, l’edizione italiana di Vogue ha scelto Lauren Hutton che bordeggiava i settantaquattro anni. È una scelta innovativa, ma certo non astratta dalla realtà: ci sono più settantaquattrenni che ventiquattrenni tra le non moltissime persone che possono acquistare un abito che appare sulle pagine di Vogue. Tra l’altro, le settantaquattrenni hanno forse anche più occasioni per indossarlo e sicuramente, se è un abito molto particolare, hanno la personalità che occorre per portarlo con la disinvoltura che spesso manca alle più giovani. Ecco, nella sicurezza di sé, nella noncuranza, nella libertà, nel: «Massì, io lo faccio!», c’è forse la chiave di lettura del perché gli anziani piacciano molto e del perché l’età avanzata costituisca sempre più spesso un fattore di successo: la “mozione Scalfari” non è un caso isolato.

Andrea Camilleri, giunto alla notorietà dopo i settant’anni, ha fatto strame di tutte le regole dell’editoria – ad esempio quella di non innescare episodi di cannibalismo tra i propri titoli, con uscite troppo ravvicinate che rischiano di danneggiare le vendite complessive: ha pubblicato ogni anno tre, quattro, cinque, sei libri diversi e ha continuato a dominare le classifiche.
Il regista Manoel de Oliveira, scomparso nel 2015, ha girato meno di dieci film prima degli ottant’anni e più di venti tra gli ottanta e i centocinque anni, film sempre più anticommerciali, sempre più estremi, eppure sempre più ambiti dai grandi attori di tutto il mondo, sempre più accolti nei festival più importanti e poi regolarmente distribuiti nei cinema per soddisfare piccoli ma tenaci drappelli di estimatori che all’uscita dicevano cose così: «Ma come si fa a fare un film del genere?». «Sai, ha centodue anni…». «Ah, ok» (sia chiaro: chi scrive era di norma quello che, in quel tipo di dialogo, pronunciava la battuta: «Sai, ha centodue anni…»).
Quello che vale per gli autori vale anche per i personaggi. I protagonisti ottantenni di Ella & John di Paolo Virzì partono lungo la Route 1, diretti a Key West, per vedere la casa di Ernest Hemingway (nel libro da cui è tratto il film, In viaggio contromano di Michael Zadoorian, edito da Marcos y Marcos, i due vogliono invece raggiungere Disneyworld, percorrendo la Route 66). Sono vecchi e malati e i figli vorrebbero fermarli. Ma anche Ella e John, come Scalfari, se ne fottono.

Anche Addie e Louis, gli anziani protagonisti del fortunatissimo romanzo Le nostre anime di notte di Kent Haruf (NN Editore), intrecciano la loro delicata storia d’amore partendo da questo presupposto. Quando Addie invita il vicino Louis ad andare a dormire a casa sua – e con “dormire” intende “dormire”: sono vedovi e soli – lui accetta e si presenta sulla porta posteriore della casa di lei. «Ho pensato che così è più difficile che qualcuno mi veda», dice. Ma Addie replica: «A me non interessa. Lo verranno a sapere. Qualcuno ci vedrà. Passa dalla strada, entra dalla porta principale. Ho deciso di non badare a quello che pensa la gente. L’ho fatto per troppo tempo, per tutta la vita». Quella libertà e quella (purissima) spudoratezza Addie le ha conquistate soltanto con l’età e, naturalmente, scandalizzano più i giovani che i suoi coetanei. Sarà per questo, per una ridotta propensione a scandalizzarsi, che Catherine Deneuve, che ha settantaquattro anni, e Brigitte Bardot, che ne ha ottantatré, hanno preso una posizione che a molti è parsa ruvida e cinica sul tema delle molestie nel mondo del cinema e che sicuramente era controcorrente rispetto a quanto è stato sostenuto dal novanta per cento delle attrici più giovani? Molti conquistano con la vecchiaia la libertà, la leggerezza, la lingua sciolta, la capacità di sottrarsi al conformismo e l’insofferenza, anche un po’ irrazionale, per quelle regole che forse non sono sempre così necessarie. Altri invece sono da sempre così. E, se sopravvivono fino a tarda età, non possono che sviluppare ulteriormente queste inclinazioni.

Negli ultimi anni la libertà di Franca Valeri ha sempre più scintillato non soltanto sul palco, ma anche in libri e interviste. E proprio in alcune recenti interviste Ornella Vanoni, che incurante del giudizio lo è sempre stata anche in modo esibito, ha dato spesso il meglio di sé. Per non parlare di Paolo Poli che, superati gli ottanta anni, faceva sul palco, con sempre più allegria, sempre più spregiudicatezza e sempre più successo, quello che soltanto la sua testardaggine gli aveva permesso di fare in passato. Intanto David Hockney attraversa da sessant’anni con il suo mostruoso talento ogni convulsione dell’arte contemporanea continuando a dipingere quadri figurativi, con una velocità da action painting unita a una cura da incisore rinascimentale. Ma ora dipinge soltanto con l’iPad, con buona pace dei puristi. D’altronde, chi già c’era quando tutto è cambiato, chi c’era negli anni Sessanta e Settanta, chi magari ha avuto il coraggio di scandalizzare quando si poteva scandalizzare davvero, beh, ora che ha raggiunto un’età che fino a ieri condannava a plaid e pantofole può invece sfavillare come una stella, specie in un’epoca dominata da vintage e retromania.

Chi può davvero essere più rockstar di Keith Richards? Chi può davvero essere più punk di Vivienne Westwood, che il punk l’ha prima inventato e poi portato, con immutato dosaggio di iconoclastia, nell’alta moda? Chi può davvero essere più nudo di Charlotte Rampling?

Si invecchia sempre di più, ma si è sempre meno obsolescenti. E se un numero di IL del 2014, in cui si raccontavano i quarantenni che, per la prima volta, avevano (e hanno) gli stessi consumi culturali dei loro figli, si intitolava La fine dell’età adulta, sarebbe forse tempo di aggiornare la teoria. Perché sta finendo anche la vecchiaia. Fino a pochi giorni prima della sua morte, a settant’anni, il 28 dicembre 2015, Lemmy Kilmister, il leader dei Motörhead (Chi può davvero essere più rockstar di Keith Richards? Sì, forse Lemmy sì, ma non c’è più) aveva continuato a cantare Killed By Death e Overkill con il microfono posizionato in altissimo, nella sua personale maniera, e quindi con una torsione del collo che avrebbe provocato la cervicale a un adolescente. Un comunicato ufficiale ha tranquillizzato i fan: Lemmy ha trascorso serenamente, a casa con la sua famiglia, i pochissimi giorni di malattia. Giocando al suo videogame preferito.

Fonte: “Ilsole24ore – Economia e Società di Guido De Franceschi”

Spesa sanitaria privata sale a 35,2 mld. In oltre 12 milioni rinunciano a cure

Posted Leave a comment

La sanità pubblica arranca, le liste d’attesa si allungano e i cittadini che possono permetterselo si rivolgono sempre più spesso alla sanità privata pagando di tasca propria, a volte «impoverendosi»: gli italiani nel 2016 hanno infatti tirato fuori 35,2 miliardi di euro, con un aumento rispetto al 2013 del 4,2%. Più dell’esborso totale per consumi che nello stesso periodo è cresciuto del 3,4% . La ragione principale è l’incessante allungamento delle code per visite specialistiche e screening, con le attese per la mammografia addirittura raddoppiate da 62 giorni nel 2014 a ben 122 nel 2016 con punte di 142 giorni nel Sud e nelle isole.

E aumenta dell’11% il numero di persone che non riesce a curarsi: sono infatti 12,2 milioni di persone che rinviano o rinunciano a prestazioni sanitarie in un anno (+1,2 milioni rispetto all’anno precedente). Sono questi i dati del VII Rapporto Censis – RBM Assicurazione Salute sulla Sanità Pubblica, Privata e Integrativa presentati oggi a Roma nel corso del Welfare Day 2017.

Le difficoltà per area geografica, al Sud e nelle isole le maggiori difficoltà

GLI ITALIANI CHE HANNO AVUTO DIFFICOLTÀ AD AFFRONTARE LE SPESE SANITARIE PRIVATE DI TASCA PROPRIA
Spesa “out of pocket” in salita dunque, tenendo conto del fatto che il dato del Report Rbm-Censis non include l’esborso per le assicurazioni sanitarie, mentre include la compartecipazione sanitaria, cioè i ticket sanitari e quelli per i farmaci che, in termini reali nel 2015 (ultimo dato disponibile) rispetto al 2007 sono aumentati del 53,7%: con +162,2% per il ticket farmaci e +6,1% per le compartecipazione per prestazioni sanitarie.

Lacune e criticità della sanità pubblica in cui si fanno spazio proposte «alternative» da parte del mondo assicurativo. «Più di un italiano su quattro – sottolinea Marco Vecchietti, consigliere delegato di Rbm Assicurazione Salute – non sa come far fronte alle spese necessarie per curarsi e subisce danni economici per pagare di tasca propria le spese sanitarie . Intanto la stessa spesa sanitaria privata, che oggi pesa per circa 580 euro pro-capite, nei prossimi dieci anni è destinata a raggiungere la somma di 1.000 euro pro-capite, per evitare il crack finanziario e assistenziale del Ssn. Una possibile soluzione? Occorre puntare su un modello di Assicurazione sociale integrativa alla francese, istituzionalizzato ed esteso a tutti i cittadini, che garantirebbe finanziamenti aggiuntivi per oltre 21 miliardi di euro all’anno, attraverso i quali integrare il Fondo sanitario nazionale. Dobbiamo prendere atto che oggi abbiamo un universalismo sanitario di facciata, fonte di diseguaglianze sociali, a cui va affiancato un secondo pilastro sanitario integrativo per rendere il nostro Ssn più sostenibile, più equo e veramente inclusivo», ha concluso Vecchietti.

Ad attrarre i cittadini verso la sanità privata è di fatto l’accesso difficoltoso al pubblico. Sono 31,6 milioni gli italiani che hanno avuto urgente bisogno di almeno una prestazione sanitaria e a causa di liste di attesa troppo lunghe nel pubblico si sono rivolte al privato. È accaduto al 72,9% dei residenti al Sud-Isole, al 68,9% al Centro, al 54,3% al Nord-Est ed al 50,8% al Nord-Ovest; ed è successo anche al 64,7% dei non autosufficienti e al 72,6% delle famiglie con figli fino a 3 anni.

I dati sono scoraggianti. Per una visita cardiologica l’attesa media è pari a 67 giorni, con una oscillazione tra i 51 giorni del Nord-Est ed i 79 giorni del Centro; per una visita ginecologica 47 giorni, passando da 32 giorni al Nord Est a 72 giorni al Centro; per la visita oculistica 87 giorni, con 74 giorni al Sud-Isole e 104 giorni al Nord-Est; per la visita ortopedica 66 giorni, con 53 giorni al Nord-Ovest e un picco di 77 giorni al Sud-Isole; per una colonscopia si attendono 93 giorni, da un minimo di 50 giorni al Nord-Est ad un massimo di 109 giorni al Centro; per una mammografia 122 giorni, da 89 giorni al Nord-Ovest a 142 giorni al Sud; per una ecografia 62 giorni, da 42 giorni al Nord-Ovest a 81 giorni al Centro; per una risonanza magnetica 80 giorni, da 50 giorni al Nord-Ovest a 111 giorni al Sud.

La lunghezza delle liste d’attesa  Ecco in ogni area geografica i giorni di attesa                             

E d’altro canto – si legge nel Rapporto curato dal Censis e da RBM Assicurazione Salute – il privato per parte sua «si è andato strutturando in termini di quantità, qualità e tariffe della propria offerta in modo da intercettare la nuova domanda di sanità che si va spostando sui mercati privati». L’impatto sociale si sente ed è fortemente diseguale. La spesa sanitaria privata pesa di più su chi ha meno, su chi vive in territori a più alto disagio, su chi ha più bisogno di sanità come gli anziani longevi (over 65), che spendono una volta e mezzo in più rispetto a un baby boomer (35-64 anni) e come le persone non autosufficienti, che spendono più del doppio rispetto alla media. Quasi due terzi delle persone a basso reddito hanno dovuto affrontare spese sanitarie private, così come il 76,6% dei malati cronici. E sono 13 milioni gli italiani che hanno avuto difficoltà, con un abbassamento del tenore di vita, 7,8 milioni hanno dovuto usare tutti i risparmi o si sono indebitate e 1,8 milioni sono entrate nell’area della nuova povertà.

Dietro tutto questo ci sono le dinamiche demografiche, invecchiamento della popolazione in primis, ma soprattutto un progressivo disinvestimento dalla sanità pubblica con un taglio della spesa sanitaria procapite che la Corte dei Conti ha quantificato in media in -1,1% annuale per il periodo 2009-2015. E non è un trend generale. Nello stesso periodo in Francia la spesa sanitaria pubblica è al contrario cresciuta in termini reali in media del +0,8% annuo e in Germania del +2% medio annuo. In rapporto al Pil la spesa sanitaria pubblica in Italia è pari al 6,8%, in Francia all’8,6% e in Germania al 9,4%. Il fabbisogno sanitario degli italiani quindi cresce e si ridefinisce per invecchiamento e cronicità, la sanità pubblica subisce una continua erosione e non potendo coprire tutto il fabbisogno sanitario, raziona la domanda. Le conseguenze: aumentano sanità privata, cure negate, disparità di accesso.

Disuguaglianze che hanno una precisa geografia, con una punta di italiani insoddisfatti del servizio sanitario della propria regione del 52,7% nel Sud e nelle isole, dove tra l’altro il 47,9% ritiene che non ci sia stato alcun miglioramento e il 38,9% dei cittadini ritiene che il livello sia addirittura peggiorato (media nazionale 12,5%). Gap che costringono i pazienti a spostarsi dalla propria regione per farsi curare altrove. E proprio al Sud si scappa di più, con il 16% di cittadini costretti a migrare per curarsi (+7,2 punti percentuali rispetto alle regioni del Nord-Ovest). Un fenomeno che in generale riguarda 6 milioni gli italiani, che si rivolgono alla sanità di altre regioni per almeno una prestazione sanitaria in un anno.

E i viaggi costano: il 57% delle famiglie che si sono rivolte alla sanità di altre regioni ha infatti avuto difficoltà nel fronteggiare le spese sanitarie private. Tra i nuovi poveri, molti lo sono a causa della salute. Una categoria che il report chiama «salute impoveriti». Sono 1,8 milioni di persone entrate nell’area della povertà a seguito di spese sanitarie che hanno dovuto affrontare di tasca propria: ne sono più coinvolte le persone a basso reddito (il 9%), i non autosufficienti (7,8%), i residenti al Centro (4,7%) e al Sud-Isole (4,1%). «Guai a sottovalutare – concludono gli esperti – che nell’area dei salute impoveriti ci sono finiti anche il 3,7% di persone con reddito medio, a testimonianza del fatto che la malattia può generare flussi di spesa tali da colpire duro anche chi si posiziona in livelli non bassi della piramide sociale».

Fonte “Ilsole24ore”

Più anziani non autosufficienti, meno posti letto: così i figli si indebitano per l’assistenza

Posted Leave a comment

Il paradosso è servito. Il Paese più vecchio d’Europa rischia di dimenticarsi dei propri anziani. In Italia il 21,4 per cento della popolazione ha più di 65 anni. La media europea è del 18,5. L’invecchiamento, del resto, non si ferma: nel 2050, secondo le stime Istat, gli over 65enni arriveranno a quasi 22 milioni, praticamente una persona ogni tre. Eppure, denuncia l’ultimo rapporto dell’Irccs Inrca (l’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico per anziani), tra i grandi Paesi europei il nostro è l’unico a non aver riorganizzato in maniera organica il suo sistema di continuità assistenziale. Con il risultato che il «peso» delle cure ricade in gran parte sulle famiglie. Oggi in Italia sono almeno un milione le persone che dedicano parte dei loro giorni (e, spesso, ore di notti insonni) ad assistere parenti non più autosufficienti. Circa 561 mila famiglie, registra il Censis, hanno dovuto erodere i propri risparmi, vendere l’abitazione di proprietà o contrarre debiti per farlo. Dietro percentuali e statistiche, ci sono nomi e cognomi: storie di rassegnazione, amarezza e profonda solitudine.

Le due strade

Senza scomodare la Costituzione, una legge per il diritto alla salute c’è già. È la numero 833 del 1978. «Dovrebbe garantire le cure, qualsiasi sia la malattia e senza limiti di durata. Il problema è che spesso, specie quando si parla di anziani, non è così», spiega Maria Grazia Breda, presidente della Fondazione promozione sociale, nata nel 2003 per tutelare i diritti delle persone non autosufficienti. Nel «modello» italiano ci sono due strade: la prima, più battuta, è la «domiciliarità» che secondo le stime dell’Auser, (l’Associazione per invecchiamento attivo) riguarda 2,5 milioni di anziani. La seconda è quella della «residenzialità», ossia l’insieme di strutture (pubbliche o private) in cui, secondo gli ultimi dati del 2013, sono ospitati 278 mila anziani autosufficienti e non.

Tra debiti e rassegnazione

In entrambi i casi, chiunque si trovi nella condizione di assistere un anziano non autosufficiente, sperimenta sulla propria pelle la carenza cronica di risorse pubbliche. Nel 2017 il Fondo per le politiche sociali ha perso 211 sui 311,58 milioni stanziati nell’ottobre 2016 mentre quello per le non autosufficienze è stato ridimensionato a 450 milioni (contro i 500 previsti). Fondi che ora il governo ha annunciato di voler ripristinare con gli introiti della “Wb tax”. Inoltre, la fotografia scattata sulle dichiarazioni dei redditi 2016 evidenzia che oltre il 70% degli anziani ha un reddito complessivo inferiore a 14.600 euro netti. Una badante in regola ha un costo medio di circa 15 mila euro l’anno. Per molti, è un lusso. 

Le lista d’attesa infinite

Ma la situazione è ancora più grigia per chi sceglie la residenzialità. Le strutture private chiedono circa 3-4000 euro al mese. E per quelle pubbliche (in cui la quota a carico dell’assistito è di circa la metà) prima ancora del pagamento delle retta il problema è l’accesso stesso alla prestazione. I posti letto disponibili in 5 anni hanno subito una sforbiciata del 23,6%. E le liste d’attesa si ingrossano. «I tempi per accedere a una struttura – spiega ancora Maria Grazia Breda – spesso si protraggono per anni e chi è dentro rischia di restarci poco. Il quadro è desolante. Ogni giorno siamo sommersi dalle telefonate di persone che chiedono aiuto per opporsi alle dimissioni forzate dei propri cari».

Fonte “www.lastampa.it”

Inail. A gennaio calano gli infortuni e aumentano le malattie

Posted Leave a comment

Sono 41.717 le denunce, 5.310 in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (-11,3%), 67 delle quali con esito mortale, due in meno rispetto alle 69 del 2017 (-2,9%)

 

In calo gli infortuni sul lavoro: a gennaio 2018 sono state presentate all’Inail 41.717 denunce, 5.310 in meno rispetto a gennaio 2017 (-11,3%), 67 delle quali con esito mortale, due in meno rispetto alle 69 del gennaio 2017 (-2,9%). Le malattie professionali denunciate sono state 4.712, oltre 600 in più rispetto allo stesso mese del 2017 (+14,8%). L’Inail precisa che si tratta di dati provvisori, perché per quantificare i casi accertati positivi sarà necessario attendere il consolidamento dei dati dell’intero anno 2018.

La diminuzione delle denunce di infortunio («ancora più significativa alla luce del fatto che nel 2018 il mese di gennaio ha
avuto un giorno lavorativo in più rispetto al 2017», è dovuta – spiega l’Inail – sia al consistente decremento dei casi avvenuti in
itinere, nel tragitto casa-lavoro e viceversa (-33,4%), sia a quello che ha interessato gli infortuni occorsi in occasione di lavoro
(-7,4%). Alla riduzione hanno contribuito tutte le gestioni, a partire dall’industria e servizi, con quasi cinquemila denunce in
meno (-13,4%), seguita dal conto Stato (-3,6%) e dall’agricoltura (-2,2%).

A livello territoriale i cali maggiori sono stati registrati al Nord-Ovest (-17,2%) e al Nord- Est (-16,3%), seguiti dalle Isole (-6,6%) e dal Centro (-2,7%). In aumento, viceversa, il dato del Sud, dove sono state presentate 158 denunce in più (+2,8%). Le diminuzioni percentuali più sensibili sono quelle registrate in Emilia Romagna (-23,2%) e in Lombardia (-20,0%), mentre gli aumenti maggiori sono stati rilevati in Molise (+18,5%), Calabria (+11,7%) e nella Provincia autonoma di Bolzano (+8,5%). La riduzione registrata nel mese di gennaio ha interessato sia le lavoratrici (-17,7%) sia i lavoratori (-7,0%). L’analisi per classi di età evidenzia invece un sensibile calo degli infortuni in tutte le fasce, con l’unica eccezione di quella fino ai 19 anni (+8,0%), in cui prevalgono gli infortuni occorsi a studenti. Risultano inoltre in calo sia le denunce relative a lavoratori italiani (-12,1%) sia quelle degli stranieri (-6,3%).

Fonte “www.avvenire.it”

Tempi lunghi per visite o esami diagnostici? Ecco come farsi curare rapidamente pagando solo il ticket

Posted Leave a comment

Le liste d’attesa infinite per accedere a una prestazione sanitaria non sono una fatalità da accettare con rassegnazione. Se i tetti massimi previsti dalla normativa sono superati da un’azienda sanitaria e non ci sono strutture alternative, il cittadino ha infatti il diritto di accedere a una prestazione intramoenia pagando l’equivalente del ticket, senza alcuna maggiorazione. Peccato che questo diritto sia poco conosciuto e che gli sportelli delle Ausl solo in rarissimi casi informano il paziente di questa possibilità.

A confermarlo è Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva (TDM): «Il diritto ad accedere alle cure pubbliche in tempi certi – spiega – nonostante sia previsto da una serie di norme, nella realtà è ancora troppo poco conosciuto dai cittadini e ostacolato in pratica. Tra le cause c’è la scarsa trasparenza delle amministrazioni sui diritti dei cittadini. Ciò alimenta le asimmetrie informative, che penalizzano ancora una volta i più deboli. Sul rispetto dei tempi di attesa, sul corretto esercizio dell’intramoenia e più in generale sul rispetto dei diritti dei cittadini c’è da migliorare ancora molto dal punto di vista dei controlli, troppo pochi e con molte falle”.

Le code in sanità sono una piaga diffusa – tra i pochi esempi virtuosi va segnalata l’Emilia Romagna – e i limiti massimi previsti dal Piano nazionale per le liste d’attesa restano obiettivi di carta. Per una visita oncologica o neurologica nel sistema sanitario pubblico non si dovrebbero superare per legge 30 giorni di attesa, in realtà i tempi si allungano anche fino a un anno (dati Cittadinanzattiva). Per una mammografia o un’ecografia, secondo i tetti previsti dal Piano nazionale, la soglia di tolleranza è di un paio di mesi. Ma anche in questo caso i cittadini arrivano ad aspettare fino a 13 mesi.

 

Che fare? 

Se una struttura non può garantire il rispetto dei tempi previsti, Il dlgs 124 del 1998 prevede che l’Azienda sanitaria debba indicare al cittadino le strutture pubbliche o private accreditate (convenzionate) che assicurano il rispetto della tempistica; nel caso nessuna struttura pubblica o convenzionata sia in grado di erogare la prestazione, l’Azienda sanitaria deve autorizzare la prestazione in regime intramurario (intramoenia). In questo caso il cittadino non deve sostenere alcun onere economico aggiuntivo, se non l’eventuale ticket (se non esente). Per avviare la procedura è necessario compilare un modulo.

Anche un medico può certificare che la prestazione è urgente
In alternativa, il Piano nazionale di Governo delle liste d’attesa prevede la possibilità per il medico (medico del servizio pubblico, medico di famiglia, pediatra, guardia medica) di applicare un codice di priorità alla prestazione richiesta. Sulla ricetta potrà quindi indicare il codice U (urgente) per cui la prestazione dovrà essere erogata entro 72 ore, B (breve) entro 10 giorni, D (differibile) entro 30 giorni le visite e 60 giorni la gli esami diagnostici, P programmabile.

La griglia dei tempi “giusti” per le diverse prestazioni (sono 58 quelle regolamentate dal Piano nazionale) dovrebbe essere adeguatamente diffusa tra i cittadini, quindi disponibile presso i centri di prenotazione, i siti web aziendali e gli uffici di relazione con il pubblico. Nei fatti questa buona pratica è poco rispettata. “A parte un’iniziativa della Regione Lombardia decisa dall’assessore al Welfare, Giulio Gallera – continua Aceti – che ha previsto la pubblicizzazione chiara e diffusa della possibilità di questa procedura, le Regioni sono generalmente silenti. A nostro parere la procedura dovrebbe invece scattare in automatico”.

Gli interessi sul tavolo
Sul piatto c’è il valore complessivo dell’intramoenia, pari a 1,1 miliardi. Di questi, circa 800-900 milioni di euro vanno ai professionisti che erogano la prestazione, circa 200 milioni di euro sono destinati al Sistema sanitario nazionale. Nel caso di prestazioni “fuori tempo massimo” pagate solo con l’equivalente del ticket, ovviamente questi flussi si ridurrebbero. Insomma, rispettare la legge, a quanto pare, non conviene a nessuno.

Fonte “Il sole24ore”

Salute, è un’Italia spaccata in due: in Trentino si vive tre anni in più che in Campania

Posted Leave a comment
La fotografia dell’Osservatorio: grave gap tra Nord e Sud, le politiche hanno fallito nel superamento degli squilibri territoriali

In Italia si vive più a lungo a seconda del luogo di residenza o del livello di istruzione. Ad avere una speranza di vita più bassa sono le persone che nascono nel Sud del paese o che non ottengono la laurea. In Trentino Alto Adige si vive in media infatti fino a tre anni più che in Campania. In sostanza, nonostante l’Italia abbia un unico Servizio sanitario nazionale, ci sono troppe differenze nelle condizioni di salute e nell’aspettativa di vita a seconda del territorio. È quanto denuncia l’Osservatorio nazionale della salute nelle Regioni italiane, progetto dell’Università Cattolica di Roma, ideato dal professor Walter Ricciardi.

I numeri

I dati dell’Osservatorio mostrano infatti un Paese diviso in due. In Campania nel 2017 gli uomini vivono mediamente 78,9 anni e le donne 83,3; nella Provincia Autonoma di Trento invece gli uomini arrivano a 81,6 anni e a 86,3 anni le donne. In generale, la maggiore sopravvivenza si registra nelle regioni del Nord-Est, dove la speranza di vita per gli uomini è 81,2 anni e per le donne 85,6; decisamente inferiore nelle regioni del Mezzogiorno, nelle quali si attesta a 79,8 anni per gli uomini e 84,1 per le donne.

Il dato sulla sopravvivenza è particolarmente basso nelle province di Caserta e Napoli che hanno una speranza di vita di oltre 2 anni inferiore a quella media nazionale, seguite da Caltanissetta e Siracusa che hanno uno svantaggio di sopravvivenza rispettivamente di 1,6 e 1,4 anni. Al contrario, le province più longeve sono quelle di Firenze, con 84,1 anni di aspettativa di vita, 1,3 anni in più della media nazionale, seguite da Monza e Treviso con poco più di un anno di vantaggio su un italiano medio.

“Il fallimento delle politiche”

«Il Servizio sanitario nazionale oltre che tutelare la salute, nasce con l’obiettivo di superare gli squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del Paese – spiega Alessandro Solipaca, direttore scientifico dell’Osservatorio – Ma su questo fronte i dati testimoniano il sostanziale fallimento delle politiche. Troppe e troppo marcate le differenze regionali e sociali, sia per quanto riguarda l’aspettativa di vita sia per la presenza di malattie croniche». Queste disuguaglianze sono acuite dalle difficoltà di accesso ai servizi sanitari che penalizzano la popolazione di livello sociale più basso con un impatto significativo sulla capacità di prevenire o di diagnosticare rapidamente le patologie. Insomma il Servizio sanitario nazionale assicura la longevità degli italiani, ma non l’equità sociale e territoriale.

 

I divari ci sono anche in base all’istruzione. Un cittadino può sperare di vivere 77 anni se ha un livello di istruzione basso e 82 anni se possiede almeno una laurea; tra le donne il divario è minore, ma pur sempre significativo: 83 anni per le meno istruite, circa 86 per le laureate.

Fonte “la Stampa”